Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, parla di coscienza, autocoscienza e ragione come parti o fasi dello spirito. L’autocoscienza però non è intesa da Hegel come semplice coscienza di se stessi, ma si inserisce nel contesto sociale e quindi politico. In buona sostanza, quando il soggetto si confronta con gli altri da sè, entrano in gioco tutta una serie di relazioni, ma anche di conflitti, che pongono in essere il rapporto con l'altro e quindi l’esistenza delle altre autocoscienze. Da qui nasce la figura dialettica servitù-signoria, che come e' noto avrebbe dovuto decretare la fine della storia, nella accezione del trionfo della prima e quasi ad inverazione della teoria delle quattro eta' del mondo di Esiodo la cui ultima eta' della storia e' appunto "quella dei servi" - Se dovessimo sempre seguire Hegel c'è un altro fattore che il filosofo pone come fine della storia, un fattore di azzeramento di tutti i contrasti in lui stimolato dall'incontro con Napoleone dopo la battaglia di Jena nel 1806, dove appunto il fatto di non avere piu' rivali, indicherebbe nel Generale e Imperatore una sorta di ineluttabilita'. a mò di Legge dell'entropia, degli eventi umani tendenti verso l'appianamento di ogni contrasto . Ora e' notorio quanto sia poca la mia considerazione verso Hegel: fin dai tempi del liceo non ho fatto altro che trovare la sua filosofia velleitaria, rigidamente schematica e sostanzialmente sbagliata. Anche in questo appuntino non mi smentisco - la sua fenomenologia e' di una banalita' disarmante, tra l'altro sarebbe bastato aspettare qualche mese e avrei voluto vedere come avrebbe considerato Napoleone dopo la battaglia di Eylau, per non parlare di un paio di anni dopo in Spagna. Riguardo la supposta grandezza della funzione autocosciente umana anche qui non si può non cogliere l'infondatezza delle sue tesi . Le critiche alla “ragione strumentale” da parte di alcune correnti filosofiche, per esempio la cosiddetta Scuola di Francoforte o il “secondo” Heidegger. o quelle di certa filosofia orientale che si affida all’intuizione, al “vuoto mentale”, come nello Zen, cercando, quest’ultimo, di fare a meno della ragione nella sua totale estrinsecazione umana, in favore, come detto, di uno stato mentale che d’acchito — analogamente all’intuizione di H. Bergson — comprende le cose, per poi agire nella realtà. Tutti questi e altri approcci analoghi, solo tangenzialmente toccano la tematica specifica dell’autocoscienza, mentre riflettono direttamente sulle attività cognitive deputate, appunto, al calcolo e quindi alle strategie per risolvere problemi reali nella realtà quotidiana, essendo attive anche in assenza di autocoscienza. A questo riguardo è molto suggestivo il libro che ho citato assai spesso e che è un pò la mia Bibbia procedurale in tema di pensiero e ragionamento “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” dello psichiatra americano Julian Jaynes che, con argomentazioni giustappunto estremamente suggestive, e per me più che convincenti, elenca tutte le funzionalità umane, la concettualizzazione, l’apprendimento di soluzioni pratiche o addirittura il pensiero stesso che possono essere operanti in assenza di autocoscienza. Anche Wilhelm Reich ha espresso considerazioni che conferiscono estrema importanza all’autocoscienza, cui attribuisce la responsabilità dell’allontanamento dalla natura degli umani non più capaci, perchè consapevoli, di abbandonarsi alla pulsazione della stessa natura. La specie umana, da circa centomila anni, non ha subito mutamenti di grande rilievo, si è stabilizzata, il chè vuol dire che un soggetto umano di centomila anni fa è sostanzialmente uguale a noi. A riguardo è interessante ricordare F. Nietzsche e l‘antropologia filosofica — M. Scheler, il Nietzsche cristiano, come diceva di lui Troeltsch e ancora Plessner e Gehlen, che invece parlavano di una natura umana ancora instabile, cioè incompleta e situata nella natura in “posizione eccentrica”, perchè il suo apparato pulsionale-istintuale, pur potente e di certo assolutamente naturale, non è rigidamente determinato come nelle altre specie. A fronte di queste caratteristiche, la capacità culturale umana, prevalentemente razionale, essendo pressochè infinita, è aperta a ogni cambiamento, funzionale o disfunzionale. L’errore, dunque, riguarderebbe l’emergere dell’autocoscienza, o meglio di quelle proprietà cognitive che rendono il soggetto capace di visualizzare se stesso, di ragionare sul suo essere in vita e sulle capacità dei suoi atti volitivi, nonchè porsi il significato del suo stare al mondo, e della sua finitezza solitamente implicato, almeno dal punto di vista storico, con concezioni trascendenti e comunque non totalmente radicate nella realtà contingente. Non è un caso che vengono considerati di derivazione umana i reperti archeologici quando essi siano segni di cerimonie o siti funerari. La consapevolezza della propria morte è caratteristica dell’autocoscienza e quindi essa viene utilizzata come fonte artistica, rituale e religiosa. Queste peculiarità cognitive aprono la strada al soggetto cosciente di sè, quindi emerge l’individualismo e quelle tendenze dell’agire umano cui genericamente si attribuisce l’attributo egoistico-egotistico. Il tragico dell’essere umano sta proprio in questo passaggio che implica, di fatto, lo sradicamento da quella comunità che invece gli rende possibile la vita. Nessun umano potrebbe vivere in solitudine a partire dai primi giorni di vita. Il periodo dell’allattamento e dello svezzamento, vissuto in quasi completa eteronomia, è tra i più lunghi rispetto alle altre specie, proprio perchè ha bisogno di essere accudito strettamente dalla madre o da chi ne fa le veci. Da solo non è in grado di mantenersi in vita. L'essere umano è un essere sociale nella sua essenza, potremmo dire e' sociale nonostante la sua individualità tenda a dimenticarlo o a far come se fosse al centro del mondo, addirittura come diceva Protagora "la misura di tutte le cose"
il nome è ripreso da un vecchio locale di Praga Solidni Nejistota dei primi tempi dopo la liberazione dal comunismo
lunedì 7 novembre 2022
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